segunda-feira, 14 de maio de 2012

Tra giurisprudenza e bioetica: il Biodiritto


Autore: dr.ssa Simona Carmenati   
Eutanasia; clonazione terapeutica; eugenetica, mappatura del genoma; ogm, fecondazione eterologa; procreazione assistita… Possibilità per l’uomo contemporaneo che pongono urgentemente a confronto sviluppi scientifici con questioni di coscienza etica e di regolamentazione normativa. Può il diritto fare chiarezza in una dimensione quale quella morale, per definizione soggettiva, intima, confine stesso tra ciò che è bene e male, un confine inafferrabile e sfuggente in relazione al punto di osservazione?


Se la giurisprudenza non può codificare le coscienze, certo può, anzi deve porre delle basi condivise all’agire sociale, arrivando a toccare nodi tanto delicati quanto fondanti quali i diritti inviolabili dell’uomo, la libertà, dignità e sviluppo della persona, la tutela della salute, nel difficile equilibrio di indipendenza e sovranità di ordini distinti: Sato, religione, ricerca scientifica. Il biodiritto è oggi il ramo che si occupa specificatamente delle implicazioni giuridiche di questioni bioetiche.

Ne parliamo con il prof. Carlo Casonato, Professore associato confermato di Diritto pubblico comparato e responsabile del progetto BioDiritto presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Trento.


Innanzitutto, prof. Casonato, da quali stimoli nasce la disciplina del biodiritto, e quale ne è, a suo avviso, l’utilità?


Personalmente, ho cominciato ad interrogarmi su questioni di biodiritto quasi per caso e senza averne consapevolezza. Dopo essermi laureato a Trento con una tesi di diritto costituzionale comparato, ho ottenuto dal Consiglio d’Europa una borsa di studio per approfondire il tema dei trattamenti sanitari obbligatori ed i rispettivi limiti alla tutela della riservatezza/privacy. Ne è uscita una prima monografia (1995) in cui, inevitabilmente, mi sono trovato ad affrontare come diversi ordinamenti bilanciavano il principio di autodeterminazione ed il right to privacy (concetti funzionalmente equivalenti) con le esigenze di sicurezza e di salute pubblica della collettività. Un tema classico di “libertà individuale v. imposizione statale”, le cui implicazioni generali, però, stavano crescendo a dismisura a motivo dell’intreccio fra un inarrestabile sviluppo tecnologico ed una forte evoluzione culturale e giuridica dei diritti dei pazienti (la nuova versione del codice di deontologia medica, ad esempio, è del 1998). Mi scuso per quest’inizio di carattere autobiografico, ma attraverso le mie prime ricerche mi sono reso conto di come le problematiche che siamo soliti ricondurre alla materia bioetica fossero estremamente stimolanti nel senso di porre al diritto interrogativi molto concreti e sempre nuovi, i quali non sono facilmente inquadrabili nelle categorie giuridiche con cui siamo abituati a ragionare. Una fase di fine-vita altamente medicalizzata, ad esempio, ci spinge ad interrogarci sulle definizioni di morte e di vita, sul principio di disponibilità o indisponibilità delle stesse, sulla reazione dell’ordinamento nei confronti di imposizioni contro la volontà individuale. Il cd. danno da nascita (wrongful life e wrongful birth), da diversa prospettiva, ci spinge a chiederci in che termini una vita possa essere considerata un danno risarcibile; l’embrione, ancora, non può certo definirsi persona ai sensi del codice civile, anche se il diritto lo riconosce come centro di interessi variamente meritevoli di tutela; e gli esempi, come sappiamo tutti, potrebbero proseguire numerosi. In quest’ottica il biodiritto ci spinge a verificare la validità e l’utilità delle categorie giuridiche che ci sono familiari alla luce dei mutamenti sociali e scientifico-tecnologici tipici del nostro tempo.

Un altro aspetto che mi pare importante segnalare riguarda il metodo con cui, assieme ad una serie di colleghi e collaboratori, cerchiamo di affrontare il biodiritto. Negli Stati Uniti, che pure hanno dato la luce negli anni ’60 alla bioetica, il biodiritto è insegnato attraverso testi che noi chiameremmo al massimo Casi e materiali. Si tratta dei popolari Casebooks la cui parte prevalente è generalmente costituita da estratti di sentenze anticipati da brevissime introduzioni e seguiti dagli usuali Comments and Questions. In linea con il concetto di common law, la concretezza del caso è dominante e quasi assente pare lo sforzo di sistematizzazione e razionalizzazione («The life of the law has not been logic; it has been experience», Oliver Wendell Holmes). In Italia, d’altro canto, pare essere avvenuto il fenomeno inverso. Il diritto si è solo recentemente cominciato ad occupare non occasionalmente delle tematiche bioetiche e tendenzialmente prevalente è stato il contributo sul versante filosofico. Le diverse tematiche, così, sono state più frequentemente oggetto di una lettura impostata sui principi generali dell’etica (personalismo, utilitarismo, neocontrattualismo, ecc.) più che calate nelle problematiche concrete dei casi. Il metodo che vorremmo applicare per il biodiritto, invece, cerca di partire dai singoli casi, dagli specifici atti normativi interpretati alla luce dei principi costituzionali, come arricchiti dal confronto con le esperienze straniere. In questo modo, tentiamo di comprendere e di analizzare con spirito critico il dato giuridico inserendolo in un panorama più ampio.


L’attuale regolamentazione normativa è soddisfacente?

Non mi sembra che l’Italia possa essere considerata all’avanguardia nella disciplina delle problematiche bioetiche. Vorrei indicare due profili della questione. Alcuni temi sono semplicemente non regolati. Basti pensare alle dichiarazioni anticipate di trattamento o allo stesso principio base del consenso e del rifiuto al trattamento medico, per cui ci si deve ancora affidare ai termini generali della Costituzione laddove dichiara che «[n]nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» (art. 32, secondo comma). La stessa Convenzione di Oviedo, cui si fa spesso riferimento, è stata sì oggetto di una specifica legge di ratifica (145 del 2001), ma, oltre a difettare dei decreti di attuazione, manca ancora del deposito dello strumento di ratifica presso il Consiglio d’Europa, tanto che l’Italia non appare fra gli Stati che l’hanno effettivamente ratificata. Il secondo ordine di problemi riguarda la natura ed il carattere degli atti normativi che pure in questi ultimi anni sono stati adottati. Faccio particolare riferimento alla legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita che, molto di più di quanto abbia fatto emergere l’esito del referendum, mi pare continui a lacerare il tessuto sociale, scientifico, medico e giuridico italiano. Mi sembra che rimanga una legge imposta dalla maggioranza e non condivisa da larghi strati della società; una legge che presenta – a mio parere – evidenti profili di illogicità, contraddittorietà ed illegittimità costituzionale. Anche nei settori in cui sono intervenute discipline specifiche, quindi, non mi pare che si sia costituito un quadro giuridico complessivamente coerente ed efficace.


Quali sono i punti problematici con cui si scontra il biodiritto?

Le questioni bioetiche tendono a far emergere la struttura morale – potrei dire – dell’interprete; evocano prepotentemente la sua sensibilità personale. Se l’interpretazione è in ogni caso un’attività non neutra ma soggettivamente orientata, quella rivolta a questioni delicate come la definizione della morte o l’inizio della vita tende ad esserlo in massimo grado. Una prima difficoltà, quindi, consiste nel cercare di analizzare il diritto che si occupa delle questioni bioetiche utilizzando un metodo che limiti, nel possibile, la dimensione soggettiva. Nelle nostre ricerche, quindi, tendiamo a privilegiare un criterio di analisi critica che si basa sulla coerenza fra formanti, sul principio di non contraddizione interna, facendo specifico riferimento ai principi costituzionali adottati dall’ordinamento oggetto d’indagine. Non tendiamo insomma a giudicare una legge o una sentenza in termini di giustizia astratta, ma a rilevarne i punti deboli e quelli di forza in riferimento al rispetto delle linee principali fatte proprie dall’ordinamento. Una sorta di “valutazione d’impatto normativo”, in cui l’oggetto è analizzato in riferimento al contesto entro il quale si troverà a produrre i propri effetti.
Un problema di altro ordine riguarda il ritardo del formante legislativo rispetto alla velocità del suo oggetto. Oltre alla fisiologica lentezza del processo legislativo, la materia bioetica – come anticipato – è capace di suscitare le grandi questioni di civiltà su cui il tessuto sociale sempre meno riesce a trovare accordi sufficientemente condivisi. La presunzione del possesso della verità, in questo senso, si sta affermando come un dato preoccupante, causa di inefficacia di un diritto che dovrebbe costituire un fattore di unione e non di lacerazione. Mi sbaglierò, ma mi pare che l’Italia debba ancora compiere un lungo cammino prima di giungere a quel livello di maturità culturale che potrà permettere un dialogo costruttivo fra posizioni che si riconoscono a vicenda e che sono in grado di entrare nel merito delle questioni; un dialogo che permetterà di porre le basi per un diritto tollerante, che superi un’impostazione di assolutismo etico e culturale che appare estranea alla nostra tradizione giuridico-costituzionale .


Lei propone due ipotesi “tese al recupero di un ruolo del diritto e del diritto costituzionale in bioetica”: una sostanziale-costituzionale e una procedimentale . Come le sintetizzerebbe?

Per alcuni profili, la Costituzione mi pare poter assumere anche in riferimento alle tematiche bioetiche un significato di base, di primo livello. Pare contenere, in altri termini, un nucleo duro di principi direttamente applicabili anche ai casi concreti e in grado di fornire una base sufficientemente chiara, coerente, condivisa ed efficace per una perlomeno parziale formazione e legittimazione del biodiritto. L’art. 32, secondo comma, della Costituzione italiana, ad esempio, fonda un principio cardine in ambito sanitario: il diritto di rifiutare i trattamenti che non siano espressamente previsti da una legge. La libertà di coscienza costituisce un altro profilo su cui il diritto costituzionale può dare indicazioni chiare, precise e vincolanti. Intesa come “relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso” trova fondamento in una lettura sistematica degli articoli 2, 19 e 21 della Costituzione come offerta dalla Corte costituzionale in una serie di sentenze. E su questa linea non avrei dubbi a reputare incostituzionale una legge che non garantisse al personale sanitario il diritto di non intervenire in materie “eticamente sensibili” (si pensi all’interruzione volontaria di gravidanza, alla pma o all’atto della sospensione di un trattamento di sostegno vitale) e questo anche a scapito di rischiare che determinati interventi vengano svolti da una minoranza anche esigua del personale sanitario.
I problemi, tuttavia, riemergono non appena si abbandoni questo primo livello per cercare di trovare una disciplina precisa su ambiti di maggior complessità. Che dire ad esempio, del divieto (pur tutto italiano) di fecondazione eterologa o del livello di tutela dell’embrione? Ecco allora la distinzione – applicabile anche in altre ipotesi – fra un primo livello, minimo ma decisivo in riferimento al quale la Costituzione contiene principi chiari e vincolanti e su cui la Corte costituzionale è chiamata ad intervenire in funzione di garanzia, ed un livello ulteriore la cui disciplina, tendenzialmente libera da limiti stretti in Costituzione o da interventi interpretativi della Corte, potrà essere orientata dal legislatore, oltre che giudicata dagli elettori, secondo la propria volontà discrezionale. È in questo secondo ambito libero da stringenti vincoli costituzionali che si può proporre la scelta procedurale. Una procedura, però, il cui esito non si basi sulla forza dei numeri, sul mero principio maggioritario, ma che si articoli attraverso un dialogo intellettualmente onesto e disponibile al compromesso. Su questa linea, vorrei sottolineare come una dimensione procedurale che prenda sul serio e dia spazio ad una pluralità di contributi sia la forma che maggiormente incontra le caratteristiche dello stato costituzionale contemporaneo e quella che con maggiore probabilità permetterà di costruire un biodiritto utile anche oltre la ridotta sfera del “costituzionalmente vincolato”.


La complessità di una trattazione di questioni bioetiche dal punto di vista giuridico è comprensibile anche ponendo l’attenzione alla pluralità di ordini istituzionali e culturali chiamati a diverso titolo a intervenire sulle decisioni: Parlamento, Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, fonti giuridiche territoriali (dal diritto internazionale all’autonomia regionale), fonti secondarie, circolari, e ancora comitati etici, comunità scientifica, autonomia e responsabilità del medico, consenso del paziente.
A suo giudizio, questo pluralismo è ostacolo o risorsa?


Se il pluralismo non pare principio oggi in voga, a me sembra che il suo rispetto sia invece l’unica via per ottenere un biodiritto equilibrato, che permetta di bilanciare la cifra dell’imposizione con quella della libertà. Si tratta, insomma di un biodiritto aperto, a geometria variabile, che basa il proprio riconoscimento non sul comando autoritario, ma sull’essere il risultato di una procedura dialogica, di contrapposizione anche accesa ma sempre intellettualmente onesta fra più componenti della società, della politica, delle religioni, della scienza, del diritto, della cultura. Un dialogo in cui nessuno vince sulla base dei rapporti di forza, ma con-vince caso per caso chi dispone delle migliori argomentazioni. In questa prospettiva, si potrebbe giungere alla formazione di un biodiritto che, più che altro, si legittima prevalentemente attraverso il carattere plurale del procedimento di formazione: come ho scritto in altra sede, non veritas nec auctoritas sed pluralitas facit legem .


Il legislatore come può orientarsi di fronte a questi approcci?

Non è facile: tempo e disponibilità al dialogo

Più facile a dirsi che a farsi, certamente; anche se mi sento di invitare a non rassegnarsi a brutte leggi; a imposizioni lesive della libertà individuale e dei principi costituzionali da parte di chi, di volta in volta, riesce ad avere un voto in più in Parlamento in occasione della votazione di un provvedimento. Discorsi del tipo “meglio una brutta legge che nessuna legge”, che pure sono circolati numerosi nel dibattito sulla legge sulla procreazione assistita anche da parte di chi l’ha sostenuta, mi sembrano preoccupanti in quanto tesi a svilire il valore civico su cui anche la nostra società è basata. Fra una brutta legge e nessuna legge, come cittadino e come giurista, preferisco una buona legge, e pretendo che chi rappresenta il corpo elettorale faccia di tutto per arrivare a soluzioni equilibrate ed efficaci. Come altri ordinamenti ci dimostrano – ho in mente il Canada, ad esempio – buone leggi sono possibili anche in materia bioetica e mi sembra desolante che chi è stato scelto per rappresentare la nazione si nasconda dietro comode posizioni che nascondono il problema.

C’è un tema in particolare che vorrei iniziare ad affrontare insieme a lei, quello della “morte dignitosa e sospensione delle cure”, citando una sua pubblicazione . Parliamo delle implicazioni giuridiche di atti e decisioni che coinvolgano pazienti terminali il cui mantenimento in vita è subordinato alla costante somministrazione di terapie e all’alimentazione e idratazione artificiale. Recenti casi di cronaca italiana e internazionale (caso Englaro, caso Terry Schiavo) hanno scosso l’opinione pubblica sui temi del mantenimento in vita, del rifiuto delle terapie, dell’accanimento terapeutico, del delicato confine tra mantenimento in una vita dignitosa oppure biologica, da un lato. Dall’altro lato, per le riflessioni che si aprono circa il riconoscimento di una volontà, accertata o verosimile, del paziente stesso, e su quali possibilità di un intervento e una decisione a esso estranee.

In questo stesso settembre 2005 il Comitato nazionale di bioetica (Cnb) si è pronunciato sulla non validità di un eventuale testamento biologico di pazienti (generalmente legittimato negli Stati Uniti d’America) che si fossero pronunciati, quando in piena coscienza, richiedendo la sospensione di alimentazione e idratazione artificiale nell’eventualità di uno stato vegetativo persistente. Cibo e acqua non sono considerati atti medici ma assistenza ordinaria. Focalizzandoci sull’alimentazione artificiale e il rifiuto delle terapie, troviamo una trattazione sul tema nell’ordinamento italiano? 


Per come interpreto il dato costituzionale, come ho detto, il diritto al rifiuto delle cure mi sembra fondato nell’articolo 32, secondo comma. Per chi ha la capacità di comprendere pienamente le informazioni sul proprio stato di salute, sulle prospettive della prognosi, sulle conseguenze dell’intraprendere o rifiutare un determinato trattamento, quindi, mi sembra che sia proprio la Costituzione a riconoscere un diritto di autodeterminazione terapeutica. E visto che i trattamenti sanitari obbligatori sono previsti in ambiti specifici (vaccinazioni o salute mentale, ad esempio) mi sembra evidente che anche i trattamenti di sostegno vitale debbano essere interrotti a fronte di una espressa e pienamente consapevole volontà del soggetto.

Tale posizione, e vengo al tema della nutrizione e idratazione artificiale, mi sembra anche confermata dal fatto che chi si oppone alla capacità del soggetto di rifiutare tali trattamenti vitali, non revochi in dubbio il diritto al rifiuto di per sé, ma sostenga che la nutrizione artificiale non sia tecnicamente un trattamento sanitario, ma una cura vitale eticamente e deontologicamente doverosa. Nel parere del CNB dell’ultimo settembre, ad esempio, si sostiene come «acqua e cibo non diventano … una terapia medica soltanto perché vengono somministrati per via artificiale». Devo dire che questa posizione non mi convince. Anche la ventilazione meccanica (il cd. polmone d’acciaio) non sarebbe allora trattamento sanitario e non rientrerebbero nel contenuto del diritto al rifiuto? E dove porre la linea fra le sostanze nutritive somministrate per via artificiale (si pensi ai farmaci) che non costituirebbero di per sé trattamento sanitario e che quindi non potrebbero essere rifiutate? La letteratura internazionale, inoltre, è perlopiù concorde nel considerare la nutrizione artificiale un trattamento sanitario a tutti gli effetti.

Il problema allora, mi sembra stia da un’altra parte e consista nel ricostruire la volontà dei pazienti incapaci di esprimersi. Una volta accertata la volontà di rifiutare il trattamento, mi sembra che l’imposizione dello stesso, anche di sostegno vitale e anche di nutrizione artificiale, equivalga a tradire la struttura morale del soggetto ed un suo preciso diritto costituzionale.

Volontarietà dei trattamenti sanitari; consenso informato; alimentazione e idratazione artificiale quali “atti eticamente e deontologicamente doverosi”, secondo il Cnb e, in parallelo, “eutanasia attiva”; “eutanasia passiva”; “omicidio pietoso”. Può aiutarci a dare organicità a questo quadro?

Purtroppo no. Mi sembra anzi che il diritto che si occupa di queste tematiche si presenti particolarmente incoerente e problematico. Segnalo, ad esempio, i diversi ed anche contrapposti
significati che vengono dati a formule come quelle del rispetto della dignità umana, alle possibili contraddizioni fra quello che è possibile definire diritto costituzionale all’eutanasia passiva (morte a seguito del rifiuto di trattamenti di sostegno vitale) ed il divieto penale dell’eutanasia attiva, al non ancora completamente recepito diritto al consenso. Il quadro legislativo e codicistico non è soddisfacente e capita di assistere ad una sostanziale disapplicazione di norme ritenute non più corrispondenti ad un sentimento di giustizia. Oltre a molte vicende in altri ordinamenti, il caso italiano Forzatti o il cd. caso Monza mi sembrano significativi in questo senso. Nel primo caso, è stato addirittura il p.m. a dare notizia che, in caso di condanna dell’imputato (condanna che lo stesso p.m. aveva per altro richiesto) si sarebbe subito attivato per fargli ottenere la grazia, Il principio dura lex sed lex, insomma, non mi sembra né efficace nel regolare con certezza ed equità tali tematiche né particolarmente in linea con i principi dello stato costituzionale.

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